LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE ESCI DAL SENO DELL'ESSERE"

creata il 28 gennaio 2009 aggiornata il 9 giugno 2009

 

 

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Antelao

Il seno è praticamente l’unico oggetto che compare nella dottrina psicanalitica della Melanie Klein. Non è solo un oggetto. È addirittura un metaoggetto che, come un antica statuetta del satiro Sileno, contiene in sé il tesoro di tutti gli oggetti parziali primordiali, quello che si chiamava agalma. Non voglio entrare nei dettagli del kleinismo, di cui non sono esperto. Però voglio segnalare un interessante fenomeno che si evidenzia comparando l’opera della Klein a quella di Lacan.
Esiste una curiosa simmetria tra la dottrina kleiniana e la prima formulazione della dottrina lacaniana, quella antecedente all’invenzione dell’oggetto a, ai tempi in cui l’oggetto era da Lacan ancora ritenuto originariamente perduto. Tutto il IV Seminario del 1956-1957, dedicato alla relazione d’oggetto, ruota attorno alla frustrazione, privazione, castrazione prodotte nei tre registri soggettivi, rispettivamente nell’immaginario, nel reale e nel simbolico, dalla perdita originaria dell’oggetto. Per altro non va dimenticato che una non piccola dose di "perdita oggettuale" funziona anche nella dottrina kleiniana, dove l'oggetto perduto nel mondo esterno è ricostruito nel mondo interno del soggetto ("soggetto" non è termine kleiniano).

La simmetria tra la Klein e Lacan è la simmetria ontologica del binarismo forte: nella prima l’oggetto è presente, nel secondo assente. In un certo senso – questo è bene precisarlo subito – sia la Klein sia Lacan sono poco freudiani, nel senso che hanno frainteso il messaggio freudiano, traducendolo in termini psicologici, la prima, e in termini filosofici, il secondo. Per Freud l’oggetto non è né presente né assente, ma è da ritrovare (wiederfinden). Freud non è ontologico, ma epistemico. Non convoca l’essere, in quanto essere presente o essere assente, ma il sapere, nel caso il saper trovare. La  tesi freudiana, che mi sembra più scientifica delle posizioni che stiamo analizzando, le quali sono o psicologistiche o metafisiche, mi guiderà nell’ulteriore analisi delle dottrine kleiniane e lacaniane.

A un primo livello la simmetria Klein/Lacan si estrinseca, quindi, come contrapposizione ontologica tra presenza e assenza dell’oggetto: nella Klein l’oggetto è presente, troppo presente; in Lacan l’oggetto è assente, troppo assente. Ma la simmetria è più ricca di quanto testimoni il semplice binarismo ontologico della presenza/assenza. Si articola a livelli ulteriori. Riguarda, infatti, i rapporti tra oggettualità e alterità. Nella dottrina kleiniana è presente l’oggettualità ma è assente l’alterità. Viceversa, nella dottrina lacaniana è presente l’alterità – addirittura con un doppio “altro”: grande e piccolo, rispettivamente simbolico e immaginario, non speculare e speculare – ma è assente o per lo meno carente l’oggettualità.

Certo, poi intervengono le mitigazioni. Ma anche le mitigazioni della simmetria sono simmetriche.

La Klein arricchisce la ridotta alterità, introducendo l’identificazione proiettiva, tramite la quale il soggetto immagina di introdursi nell’oggetto con l’intenzione di riparare alle offese prodotte da lui nell’altro mediante i suoi attacchi paranoici. Tutto il saggio Invidia e gratitudine, al di là delle fini intuizioni psicologiche, è il tentativo di recuperare la dimensione della alterità dell’oggetto. Una forma sostanziale di mitigazione della dottrina kleiniana da parte dell’allievo Winnicott è l’invenzione dell’oggetto transizionale, che non è ancora l’oggetto della scelta oggettuale definitiva e non è più l’altro materno, che sta per essere abbandonato.

Da parte sua Lacan corregge la carenza dell’oggetto, inventando l’oggetto a, localizzato all’intersezione vuota dei tre registri reale, simbolico e immaginario. Lì, nel vuoto assoluto del nulla, si totalizza la lista impensabile di tutti gli oggetti “causa” del desiderio. Il nulla è il seno di Lacan. Ma paradossalmente l’oggetto vuoto rinforza la funzione metafisica dell’altro – il desiderio è il desiderio dell’altro è un tipico mantra lacaniano.

Faccio osservare tra parentesi che la riduzione dell’oggetto a mondo contiene un’insidia: la riduzione dell’oggetto a mera rappresentazione. Heidegger ritiene caratteristica della filosofia della modernità questa riduzione (Cfr. L’epoca dell’immagine del mondo in Sentieri interrotti). Ma, a onor del vero, non essendo filosofo, la Klein non cade nel tranello. Lacan, che pure non è molto lontano dall’approccio filosofico, grazie al suo logocentrismo, non cade nella psicologia della rappresentazione.

Alla base delle differenze tra i due analisti citati c’è, però, un fattore comune, che pur manifestandosi in forme diverse nelle rispettive dottrine, le pone sotto la stessa rubrica. Il fattore comune, a cui ho ripetutatemente accennato, è l’ontologia, che segna e domina entrambe le dottrine. L'ontologia - va riconosciuto - è un illusione. In particolare, è l'illusione fondamentale da cui lo psicanalista, specie se è di formazione filosofica, non prende quasi mai le distanze. Si tratta dell'illusione narcisistica - qualche autore aggiunge: primaria - del soggetto di poter essere tutt'uno con il seno materno. Dal punto di vista psicanalitico l'aforisma di Parmenide - l'essere è, il non essere non è - si concretizza nel più banale motto: "Se sei nel seno, sei; se non sei nel seno non sei". Da qui l'ontologo dovrebbe trarre l'ispirazione per avviare alcune considerazioni topologiche, o di geometria dei luoghi dell'essere. Invece, forse intuendo la difficoltà del percorso, tenta una scorciatoia. Si rivolge all'henologia, la scienza dell'uno. Che gli offre l'equazione essere = essere uno, insieme alla soluzione leibniziana: Ce qui n'est pas véritablement un être n'est pas non plus véritablement un être. Insomma, all'ontologia immaginaria del seno - la senologia - viene in soccorso con il suo armamentario metafisico l'henologia o scienza dell'Uno. Si passa, così, con un tratto di penna dalla senologia all'henologia. Allora, l'essere si chiude su se stesso e diviene (sic) contemporaneamente uno e tutto. Insieme, l'uno e il tutto ristabiliscono il mitico "tutt'uno" della fusione con la madre. I filosofi, in particolare i fenomenologi, la chiamano sintesi passiva, ancora in relazione con l'oggetto mondo, che ora è ribattezzato come il "mondo della vita" (Lebenswelt). Si tratta di un costrutto ideologico solidissimo. La decostruzione metafisica di questa ontologia mammaria, avviata da Heidegger e proseguita con Derrida, è tuttora problematica. L'associazione dell'ontologia al discorso del padrone e ai suoi finanziamenti è il nodo che neppure la rivoluzione marxista ha saputo sciogliere, anzi ha ribadito con il suo materialismo storico. Se il potere stabilisce cos'è l'essere, non c'è analisi formale che sappia slegare quel che il potere lega. (Neppure Freud è completamente esente dall'illusione ontologica. Il suo mitico Edipo testimonia il lutto incompleto dell'ontologia.)

Il fattore ontologico è più evidente nella Klein la quale, istituendo l’oggetto seno, istituisce il mondo degli oggetti in cui vive fantasmaticamente il soggetto. Ma, se l’oggetto è anche il mondo, essere nel mondo è semplicemente “essere” e il programma ontologico è perfettamente definito e di fatto operativo anche a livello trascendentale. Insomma, al fondo dell’elucubrazione kleiniana opera un presupposto non tanto implicito. Essa pone in cima alla dottrina una coimplicazione reciproca, in pratica un’equivalenza, tra “mondo” e “oggetto”. Il mondo è l’oggetto e l’oggetto è il mondo. La connessione arriva al punto tale che nella loro Enciclopedia della psicanalisi Laplanche e Pontalis – in questo più filosofi che psicanalisti – definiscono addirittura la relazione oggettuale come

il modo di relazione del soggetto con il proprio mondo (sic).

Dalla struttura dell’oggetto come mondo deriva l’ontologia kleiniana, intesa come essere nell’oggetto. L’identificazione proiettiva è l’espressione più pura dell’ontologia kleiniana. Che non è poi tanto originale, tenuto conto dell’equivalenza oggetto = mondo. L’ontologia dell’essere come essere nel mondo è il tema che Maurice Merleau-Ponty annuncia sin dalle prime battute della propria Fenomenologia della percezione. Il punto non va da sé, anzi è cruciale. Conosciamo i paradossi, più presunti che reali, a cui Husserl è andato incontro nei paragrafi 53 e seguenti della Crisi delle scienze europee, tentando di sospendere attraverso l’epoché trascendentale il dato ontologico originario dell’essere nel mondo. Qualcosa di questa irrisolta paradossalità si ritrova nello sviluppo kleiniano del soggetto, che va dalla posizione schizoparanoide (oggetto e mondo frammentati) alla posizione depressiva (oggetto e mondo ricostituiti integralmente come totalità). Per ulteriore approfondimento dell’ontologia della Klein e del suo parallelismo con l’ontologia fenomenologica rimando al saggio di Lucia Angelino Merleau-Ponty/Melanie Klein ­– Proposta di un confronto.

Potrebbe sembrare più difficile reperire il fattore ontologico nel dottrinario del manque-à-être. Eppure in Lacan l’ontologia si concentra proprio là dove sembra più riposta: nel predominio assunto nel suo sistema di pensiero dalla funzione dell’altro. Si tratta della peculiare versione fenomenologica dell’ontologia, nata dal fallimento dell’epochè trascendentale. Questa, invece, di aprire l’accesso al soggetto puro – depurato dall’atteggiamento naturale e mondano – si imbatte nell’altro. L'altro fenomenologico è colui che, contemporaneamente a me, sta tentando la stessa operazione soggettiva fallimentare e trova me come altro.
Dovrei riaprire qui il discorso già fatto sull’oggetto sguardo. In estrema sintesi, dal punto di vista fenomenologico il soggetto vede il mondo – l’oggetto – da un punto cieco, cioè da un punto in cui non vede se stesso. I paradossi nascono tutti dall’accoppiamento vedere-non vedere. (è la tematica ripresa in psicanalisi dal vedere-non vedere il fallo della madre). È la vista dell’altro che restituisce – o dovrebbe restituire – al soggetto la coscienza della propria cecità – cecità sull’alterità addirittura di se stesso a se stesso. Il risultato netto dell’operazione, se riesce, è che il soggetto non vede l’oggetto – il mondo – ma l’altro, fermo restando il fatto che non vede se stesso.
Allora, al seguito di questa perifrastica dialettica, l’essere, nato come “essere nel mondo”, diventa “essere con l’altro”, cioè intersoggettività. L’argomento ontologico dell’altro è stato sfruttato in termini di “empatia” da alcuni filosofi-teologi: tipicamente Scheler per la teologia cristiana, Lévinas per la teologia ebraica, nonché dalla psichiatria del primo Novecento, da cui l’eredita lo psichiatra Lacan.

Si può uscire da questa speciosa alternativa quasi trilemmatica: oggetto (mondo)/altro?
Sì, e non è difficile. Basta allentare la presa dell’ontologia e tornare su posizioni epistemologiche di tipo cartesiano e/o freudiano. Insomma, volenti o nolenti, bisogna tornare alla scienza. In una famosa lezione immaginaria, l’ultima, la 35 sulla visione del mondo, Freud afferma che la psicanalisi non ha una propria concezione del mondo. “Suppone la Weltanschauung della scienza”. (Le OSF come al solito “cannano” e traducono “Accetta la Weltanschauung della scienza”!). Poi passa a p
recisare che la Weltanschauung scientifica è caratterizzata da precise limitazioni. Quel che in questa sede mi interessa sottolineare è che la scienza moderna non suppone (annehmen) il mondo come oggetto. L’oggetto della scienza moderna è, in varie versioni, un oggetto nuovo, che gli antichi non conoscevano o si rifiutavano di conoscere. Non è il mondo l’oggetto della scienza, perché la scienza non è conoscenza. L’oggetto della scienza è l’infinito.
Ecco, allora, la prima conseguenza dell’opzione scientifica infinitaria.

L’infinito NON è un mondo, semplicemente perché non è uno.

Quindi l’infinito non può fondare enologicamente l’ontologia dell’essere nel mondo. L’infinito può fondare, ma solo parzialmente, un’epistemologia, cioè un sapere. Ho detto “parzialmente”, perché l’infinito è una struttura non categorica, cioè ammette modelli (rappresentazioni) diverse e non equivalenti. Ma proprio la non categoricità, che implica la mancanza di unità, è la via maestra attraverso cui l’alterità entra nel teatro della soggettività. Nell’infinito il soggetto incontra un oggetto che è radicalmente altro rispetto a ogni rappresentazione che ne può dare. Ogni rappresentazione dell’infinito introduce nel soggetto la dimensione dell’estraneità a se stesso. Per quale via? Per la via della mancata rappresentazione totale e unitaria - quella che sarebbe garantita e resa familiare al soggetto dall'essere tutt'uno con il seno. In effetti, dell’infinito il soggetto non possiede la rappresentazione “giusta”, che gli sfugge sempre, ma solo un “rappresentante della rappresentazione”, un Vorstellungsräpresentanz, come dice il neologismo freudiano, che è anche un hapax. Traduci questo bizzarro termine con “significante” e ottieni la dimensione lacaniana dell’Altro simbolico. Il pregio della semplice teoria, qui presentata, è che non introduce il registro simbolico in modo autonomo, con un assioma logocentrico ad hoc, come fa Lacan, per esempio in Funzione e campo della parola (1953), ma lo deduce dalla struttura dell’oggetto. Se l’oggetto è infinito, allora esiste il Grande Altro.
Con una precisazione: il Grande Altro non è un oggetto, non essendo uno. (Il Grande Altro è una classe propria, cioè non ammette una classe cui appartenga come elemento unitario). Oggetto e Alterità rimangono distinti nel caso dell’infinito. Oggetto è l’infinito. Alterità è il modo dell'infinito di presentarsi al soggetto. Una dimensione non nega l’altra ma entrambe concordano nel localizzare (non definire!) la soggettività in un punto del piano cartesiano definito da due assi ortogonali: Oggetto e Altro. Se fai collassare l’uno sull’altro, ottieni il seno kleiniano con la sua unità totalizzante.

I risvolti di questo discorso sono importanti per la pratica clinica. Quale posizione deve occupare l’analista rispetto all'analizzante? Quella dell’oggetto o quella dell’altro? Se l’analista occupa la posizione dell’altro, l’oggetto scompare e l’analisi del desiderio si svuota di contenuto. Nel migliore dei casi, l’analisi senza oggetto diventa consulenza filosofica. Se, invece, occupa la posizione di oggetto, l’analista muore come altro e l’analisi diventa analisi di un desiderio morto. Questa seconda possibilità offre, tuttavia, un’apertura terapeutica. Se il soggetto si libera dal desiderio morto, andando trisettimanalmente a trovare un morto, può finalmente cominciare a desiderare in modo meno coatto di prima.
In base al discorso che precede, la soluzione equilibrata è che l’analista oscilli tra l'altro e l'oggetto, che è un'oscillazione più ampia di quella paranoica, prevista dalla Klein, tra seno buono e seno cattivo. Hegelianamente parlando, l'ontologia dell'analista deve essere, come la sua attenzione e il suo ascolto, egualmente fluttuante tra l'essere in sé (oggetto) e l'essere per altro (empatia?). (L'essere per sé è la variante narcisistica, onnipresente in qualunque ontologia).

Mi rendo conto che, parlando di come parlano del seno Klein e Lacan, ho parlato poco del seno (come Lacan, del resto). Non ho parlato neppure di oralità né di fase orale. Nella mia teoria l'oralità non è altro che un modello tra i tanti - forse quello meno filosofico - che può assumere l'illusione ontologica, dove l'essere è ciò che si mangia. (La lingua tedesca ha l'omofonia: ist, è = ißt, mangia, che getta luce sull'origine orale dell'illusione ontologica. "Sei quel che mangi".) Come posso rimediare, ammesso che debba proprio rimediare? Come posso parlare del seno, e simmetricamente della merda, in termini di oggetto infinito? Non sono proprio loro, in quanto oggetti finiti, addirittura i modelli dei futuri feticci dei perversi? Una possibilità c'è ed è di coniugare l’oggetto finito con il tempo, letteralmente immergendolo in un bagno di tempo.
Attraverso il tempo della loro comparsa o scomparsa l’infinito esercita il proprio influsso anche su oggetti concreti della vita quotidiana, come il seno o la merda. Il seno compare sulla scena del soggetto dopo un’attesa infinita, magari piena di lacrime e grida (il grido è un oggetto, variante dell’oggetto voce). Viceversa la merda compare improvvisamente, ma il soggetto non è in grado di prevedere quando e perché ricomparirà. Il tempo della merda è infinito, nel vecchio senso di infinito indeterminato. La ricorrenza della sua comparsa può durare più a lungo di ogni determinato intervallo limitato. Allora l’oggetto può essere rappresentato dall’antico infinito potenziale, sempre più grande. Non stupisce che la nevrosi ossessiva, la più “culturale” delle nevrosi, cioè quella che maggiormente registra i limiti della civiltà, soprattutto nella variante psicastenica, abbia di fondo costituzione anale.
Tuttavia, alcuni autori, come Gerard Mendel sostengono il contrario, proponendo un’immersione diversa degli oggetti seno e merda, precisamente l’immersione nello spazio.

Allora, mentre l’universo della regressione orale è il mondo del fluido e dell’illimitato, nel senso che non si sa bene localizzare il seno nello spazio, la fase anale introduce la delimitazione, la precisione, la localizzazione nel tempo e nello spazio; l’oggetto merda è qui e ora tra le tue chiappe. Acchiappalo se riesci. Questa indeterminazione delle teorie oggettuali non ci stupisce. È un fatto fisiologico quando si tenta di teorizzare un oggetto non categorico come l’infinito, rispetto al quale tutte le teorie risultano sottodeterminate. (Per Einstein tutte le teorie scientifiche sono sottoderminate rispetto ai dati dell’esperienza).

Ma il suggerimento teorico più rilevante che proviene dall’oggetto seno sta proprio nella sua caratteristica duplicità o - come amano dire gli psicanalisti - ambivalenza: per metà oggetto, per metà altro. Freud ha inconsapevolmente colto questo aspetto dell’“oggetto diviso”, inventando la duplicità pulsionale, ultimamente la duplicità tra pulsioni sessuali, con oggetto, e pulsioni di morte, senza oggetto, salvo poi ricomporle nella seconda topica attraverso la dialettica del mescolamento (Mischung) e smescolamento (Entmischung) pulsionale (Cfr. Cap. IV di L'Io e l'Es, 1923).
Forse con sorpresa di chi considera poco freudiano - eterodosso - il mio approccio epistemico alla psicanalisi, la duplicità pulsionale si concilia abbastanza bene con la concezione della psicanalisi come scienza dell’ignoranza, anche se in prima istanza non ricorre alla nozione di pulsione. "La dottrina delle pulsioni è la nostra mitologia", diceva Freud nella lezione 32 del 1932. E prudentemente aggiungeva: sozusagen, "per così dire". Non arrivava a dire che è una mitologia prescientifica. (Lo affermo alla pagina su Einstein). Il punto è creare per la psicanalisi una mitologia scientifica e non solo "per così dire".
Ecco, allora, una possibile prima elementare sintesi in tre punti, che si candida come mitologia scientifica.

Una prima sistemazione epistemica della teoria psicanalitica.

1. Esiste un’ignoranza ontologica di base o primordiale. Freud la chiama Urverdrängung o rimozione primaria. Essa costituisce l’inconscio nel senso dell’Es della seconda topica. L’Es è il soggetto che ignora quel che sa, cioè l’Es è un soggetto ontologicamente ignorante. La base ontologica di questa ignoranza primordiale tuttavia non è assiomatica. Non è posta come un dogma di una nuova religione epistemica. L’ontologia dell’ignoranza è una conseguenza di qualcosa che sta a monte: la non categoricità dell’oggetto, nel nostro caso l’infinito. Si può esprimere la vicenda così: il soggetto ignora l’essenza dell’oggetto. Il soggetto apprende - conosce? - l’oggetto solo parzialmente attraverso i modelli incompleti di cui dispone nel proprio capanno degli attrezzi intellettuali: voce, sguardo, seno, feci, niente, ecc. Quindi, il soggetto è ignorante, o per meglio dire, in quanto ignorante, è soggetto. (Tanto basta a differenziare il soggetto dalla sostanza).

2. Il secondo punto è meno problematico. Si suppone che esista una volontà di ignoranza, specificamente epistemica, che “resiste” al ritorno del rimosso. Quando l’oggetto si manifesta al soggetto come desiderio – o ritorno del rimosso – il soggetto non ne vuol sapere. È la rimozione secondaria. È lei la responsabile della costruzione di sintomi, che evitano l’impatto con l’oggetto e producono godimenti sostitutivi o differiti. La volontà di ignoranza riassume la paccottiglia freudiana dei meccanismi di difesa attivi all’interno dei conflitti psichici. Difesa e conflitti restituiscono dell’apparato psichico un’immagine antropomorfa, carica di piccoli uomini dentro l’uomo che non fanno l’amore ma la guerra. Pretendo che il mio teatrino epistemico sia più godibile della mitologia freudiana.

(La sapete l'ultima su Freud? E' in linea con l'argomento “seno”, anzi è addirittura l'unico mio riferimento all'oralità. L’invenzione freudiana dell’Edipo - “Non mettere il figlio (o la figlia) a letto con la madre” - è la versione psicologica del precetto della cucina kasher: “Non cucinare la carne del figlio con il latte della madre e i suoi derivati”.)

3. Le pulsioni freudiane, sia sessuali sia di morte, sono i derivati ontologici della volontà di ignoranza (Nichtwissenwille o Nichtwissentrieb). Ne abbiamo appena visto un esemplare concreto, in un certo senso paradigmatico: l'illusione ontologica come componente epistemica dell'oralità. Intese in questo senso le pulsioni sono il Kern des Ubw, il nucleo dell'Inc (L'inconscio, fine cap. VI, 1915). Dal punto di vista fenomenologico le pulsioni sono animate da un movimento di andata e ritorno. Sono circolari (Lacan). Vanno dal soggetto verso l’oggetto, che si vuole ignorare. (Il finalismo pulsionale è la contropartita ontologica del sapere che precede l'essere). Tornano dall’oggetto verso il soggetto, che non vuole più “vedere” l'oggetto che causa il desiderio. (La soddisfazione pulsionale è l'equivalente ontologico della conoscenza.) Il primo momento - in andata - istituisce l’oggettualità con il corredo di pulsioni sessuali, variamente diversificate a seconda del modello oggettuale prescelto.  Il secondo momento - di ritorno - istituisce l’alterità come oggetto perduto (Lacan), incorniciata da un’unica pulsione, la pulsione di morte. In pratica, in entrambi i casi, all’interno dello schematismo pulsionale freudiano, funziona la volontà d’ignoranza costitutiva del soggetto. Facciamo sesso perché non vogliamo sapere con cosa facciamo sesso. Aggrediamo l’altro perché non vogliamo sapere chi è l’altro (se l’altro fosse noi stessi?).
Ma la nozione freudiana di pulsione può essere lasciata cadere in quanto antropomorfa e teleologica. In quanto ultimamente aristotelica, la nozione di pulsione, con il suo moviment
o lineare in Freud (dalla zona erogena all’oggetto) e circolare in Lacan (chiusa su se stessa), può decadere dal discorso scientifico della psicanalisi.

Breve commento

Questa sistemazione è chiaramente mitologica. Ma non è criticabile per questo. E' criticabile perché sembra regredire a posizioni ontologiche precartesiane, dove l’essere precede il sapere. In effetti, la mia “rimozione originaria” conferisce uno statuto ontologico al “non sapere”. Il non sapere c'è. E' un assunto ontologico.
Giusto. Ma non finisce qui. Dalla mia parte sta il teorema di Cartesio. “Se non sai, allora saprai”, che ristabilisce il primato cartesiano del sapere sull’essere: “Se sai, sei”.
In realtà, in mio tentativo teorico pretende di dare consistenza teorica all’intuizione lacaniana che colloca l’inconscio a livello preontico, là dove il non  sapere produce il sapere, e solo in seconda battuta l’essere.
Ci sono riuscito?

Aggiornamento politico

Ha senso parlare di politica, cioè di soggetto collettivo, parlando di oggetto del desiderio, in particolare del seno?

Dopo aver visto il documentario di Ermanno Olmi Terra madre, direi di sì. In fondo l'artista fa politica a modo suo ed efficacemente. In particolare, segnala la necessità di ripensare la sinistra dopo la decadenza dello schematismo marxiano e i conseguenti tracolli eletterali, almeno in ambito europeo. Si tratta, in effetti, di ripensare l'equità non semplicemente come giustizia distributiva, quindi come fenomeno quantitativo, ma in termini di "qualità della giustizia".

Un'analisi preliminare potrebbe essere la seguente.

"Biopolitica" è un termine alla moda. Ha avuto successo, a mio parere, perché è un significante senza significato. Allora tutti possono dire quel che vogliono. Un discorso non ideologico sulla biopolitica potrebbe partire da un assunto (come si fa quando si costruisce una teoria assiomatica) e da un dato di fatto.
L’assunto è scientifico, precisamente darwiniano:

1. “C’è vita perché c’è variabilità”.

L’assunto è indimostrabile (ma resta scientifico!), a differenza del suo inverso, che è di constatazione quotidiana:

“C’è variabilità perché c’è vita”.

L’assunto 1. si potrebbe riformulare così:

1’. “C’è vita se e solo se c’è variabilità” o
1”. “Vita e variabilità sono fenomeni equivalenti”.

Il dato di fatto è che:
2. “Il potere tende a ridurre e a omogeneizzare la variabilità”.

Perché? Perché il potere è sempre il potere dell'uno, il quale pretende controllare i fenomeni della vita, che sono variabili, per conservare invariato il proprio potere. Da qui i codici di bioetica, le deontologie professionali e i programmi di riduzione (devastazione) della biodiversità. Addirittura, in quella forma paradigmatica di discorso conforme alla volontà del padrone che è la filosofia, non si fa posto alla nozione di variabilità, ma si parla di essenze delle cose, che sono invarianti e immutabili. Il dato della riduzione della diversità si può chiamare “biopolitica”, ma il neologismo non aiuta a comprendere meglio il concetto.

In termini di produzione aziendale la biopolitica si esprime e si esercita attraverso un capillare “controllo di qualità”, eseguito con i più raffinati metodi statistici. (Non si dimentichi che la variabilità è figlia della probabilità e che la probabilità è una recente acquisizione del discorso scientifico). Il potere controlla la qualità della vita perché i soggetti, prima collettivi che individuali, su cui esercita il proprio potere, non sfuggano al controllo, variando troppo rispetto alla norma prestabilita.

In ultima analisi, riducendone la variabilità, il potere tenta di ridurre la vita a fenomeno interamente sotto il proprio controllo.

Parla, se vuoi, di pulsione di morte come pulsione dominante, ma non dimenticare che questo discorso, essendo scientifico, resta condizionale e non categorico. Dipende dall’assunto 1 (o 1’). Dipende, in ultima analisi, dalla volontà del soggetto politico di far proprie certe assunzioni, che non sono quelle dominanti.

*

Il citato documentario Terra Madre suggerisce una considerazione a metà tra il politico e lo psicanalitico.

La più grande rivoluzione culturale dell'umanità, ormai rappresentata da un'unica specie, Homo sapiens, avvenne all'inizio dell'Olocene a opera delle donne. Non sto parlando dell'invenzione della tessitura, che secondo il maschilismo freudiano sarebbe stato l'unico contributo femminile alla Kulturarbeit, come sublimazione dell'attività manuale attorno ai peli pubici. Sto parlando di un'altra attività sessuale, socialmente più rilevante: la cura del seme, cioè l'invenzione dell'agricoltura. Le donne si resero conto prima degli uomini che i semi hanno valore non solo come nutrimento immediato, ma anche e di più come nutrimento differito attraverso la selezione e la coltivazione. La cura del seme ne preservò la qualità e la variabilità originarie. Che poi l'uomo maschio, trasformandosi da cacciatore-raccoglitore a contadino, distrusse attraverso le procedure di produzione agricola standardizzata. La biopolitica, intesa come riduzione e controllo della variabilità e abbattimento della biodiversità, fu inventata dall'uomo maschio circa 10.000 anni fa e continua tuttora con la produzione e la brevettazione di OGM.

Il movimento Terra Madre fa della buona antibiopolitica, quando propone di conservare 4.000.000 di tipi diversi di semi nella "banca dei semi" delle Svalbard in previsione della prossima catastrofe ecologica del pianeta.

(Terra Madre è, però, troppo pessimista. Nel caso di distruzione della vita sulla superficie della terra, affiorerebbero le forme di vita ctonie, che ovviamente non sono ancora state censite esaustivamente. Dando tempo al tempo, almeno 500 milioni di anni, impatti con asteroidi permettendo, si può prevedere che sulla terra nascano specie cerebrate, dotate di intelligenza superiore a quella di Homo sapiens, di cui resteranno scarsi fossili).

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